Babbo, passami un coltello che taglia per favore».
La sicurezza nella sua voce mi fece correre un brivido sulla schiena. Noah aveva appena 4 anni, stavamo preparando un soffritto e dovevamo tagliare cipolle e carote.
Fino a quel momento, il tempo trascorso in cucina con mio figlio era stato un passatempo. In quell’istante mi resi conto che la cucina stava diventando una palestra di vita.
Era tutto iniziato due anni prima.
Avete mai provato il desiderio di voler imprigionare il tempo? Di sentirvi come su una scala mobile, di quelle lunghe orizzontali che troviamo negli aeroporti? Puoi rimanere immobile ma ti muovi comunque.
«Se c’è qualcosa d’importante nella vita da fare, bisogna farla adesso». Mi ricordo ancora questa frase che ascoltai cinque anni fa, all’interno di un programma radiofonico mentre ero in autobus tornando dal lavoro. Tutti i giorni, come milioni di persone, uscivo di casa alle sette del mattino e rientravo alle sette di sera.
Mio figlio Matteo aveva quattro anni, Noah uno.
Ero alla soglia dei 40 anni e quella frase, quella mattina, mi risuonò in testa per molte settimane. Una frase banale: ma in quel momento, probabilmente, ero più ricettivo.
Il tempo passava e stavo perdendo i momenti migliori dell’infanzia dei miei figli.
Non fu una scelta facile, all’epoca mia moglie non lavorava. Decisi comunque di prendere l’aspettativa per valutare le priorità. In realtà le priorità le conoscevo benissimo ma non avevo mai avuto il coraggio di affrontarle. Perché lasciare la sicurezza di un «posto fisso», per una vita più flessibile che aveva un unico vantaggio – ovvero la gestione del tempo? Le incognite erano molte, le certezze poche.
Il tempo era per me un bene inestimabile.
Decisi di cambiare vita.
Mia moglie tornò a lavorare dopo diversi anni trascorsi ad occuparsi esclusivamente dei figli. Io mi licenziai reinventandomi professionalmente. Iniziai a gestire più attivamente i bambini.
Una volta acquisito il «fattore tempo», subentrò un altro problema: ovvero come gestirlo al meglio.
Avvertii la sensazione che può provare chi vince alla lotteria: passato il primo giorno di euforia, è essenziale capire come impiegare il capitale.
Decisi di iniziare a coltivare le mie passioni: e la cucina era una di queste.
Una sera, mentre cucinavo, notai mio figlio Noah prendere la sua seggiolina ed avvicinarsi alla cucina. Voleva vedere cosa accadeva nel mio magico mondo che non avevo mai condiviso con nessuno. Vidi la sua testolina spuntare per osservare i fornelli, i coltelli, le spezie. Era molto incuriosito.
Visto il suo interesse, pensai di comprargli una di quelle cucine per bambini, con padelle e coltelli finti: poteva essere un modo per sviluppare la sua curiosità.
Mi sbagliavo.
Cucina e padelle finte non facevano per lui.
Tutte le sere tornava da me mentre ero ai fornelli.
Non era il giocattolo che stava cercando, era più interessato ad entrare nel mio mondo.
Noah aveva quasi tre anni e stava iniziando la scuola d’infanzia montessoriana. Apprendere attraverso l’esperienza rientrava nel percorso formativo che avevo scelto per lui: e così decisi di coinvolgerlo attivamente.
Essendo così piccolo, gli assegnai alcuni compiti facili.
Lavare l’insalata, sbucciare l’aglio, lavorare l’impasto della pizza, pulire le alici.
Lo sviluppo della manualità era uno degli strumenti che Maria Montessori riteneva importante per l’acquisizione di abilità come la scrittura. Osservando Noah, prendevo atto attraverso un «laboratorio reale» di come la cucina fosse utile per stimolare la sua concentrazione.
Sbucciare l’aglio richiede tantissima applicazione per un bambino di tre anni.
Rompere un uovo all’inizio è un processo molto complicato perché presuppone la capacità di saper dosare la forza in modo appropriato.
Noah cresceva e così iniziai ad aumentare la difficoltà degli incarichi.
Vista la sua eccellente manualità e concentrazione sviluppata nel corso del tempo in cucina, introdussi l’uso del coltello. Come tutti i papà premurosi, gli procurai un coltello per bambini, poco tagliente. Prendemmo due taglieri, due pomodori, io lavoravo con il mio coltello e lui con il suo. Volevo che seguisse il mio esempio per tagliare il pomodoro in autonomia. Noah non capiva come mai io ero in grado di tagliare il pomodoro con estrema facilità mentre lui doveva impiegare molta forza.
Aveva 4 anni e quel giorno mi disse «fammi usare il tuo coltello, mi sembra funzioni meglio». Non nascondo che il primo impulso fu quello di «protezione»: forse non era il caso esporlo a un tale rischio. Ma Noah aveva già preso il coltello e con molta sicurezza stava tagliando il pomodoro a fette.
Avevo il cuore in gola nel vedere quelle piccole dita che maneggiavano un utensile affilato. Mi ricordai però la frase di Maria Montessori – «aiutami a fare da solo»: e forse, in quel momento, era giusto ascoltare Maria.
Avevamo già trascorso un anno insieme in cucina, avevo fornito a Noah tutti gli strumenti per essere autonomo, stava adesso a lui mettersi alla prova.
Non mancarono incidenti di percorso ma il «Signor Errore», come lo definiva la Montessori, rientrava in quel bagaglio necessario per fare esperienza. Qualche taglietto al dito, i pianti, le urla, Noah che disse «basta con la cucina».
Abbiamo rispettato i suoi tempi. Dopo un periodo trascorso lontano dalla cucina, è sempre tornato con una consapevolezza diversa che si notava da come gestiva il coltello, con molta più concentrazione. Insieme a mia moglie, pensammo di condividere con altre famiglie, l’esperienza incredibile che stavamo vivendo, attraverso il canale Instagram Noah Cooks
Arrivò poi il periodo del lockdown, durante la pandemia, e la cucina si rivelò un potente strumento per sviluppare le competenze educative che la scuola in quel momento non poteva offrire. Le conoscenze matematiche in primis – utilizzare la bilancia, scoprire le decine e le centinaia, fare le sottrazioni per capire quanto tempo mancava per scolare la pasta.
Vedevo che non c’erano limiti seppure Noah avesse appena cinque anni. Trasformammo le attività in cucina in giochi sensoriali per riconoscere le spezie ad occhi chiusi, i frutti e le verdure. Ben presto mi resi conto che la cucina poteva essere utile per esplorare il mondo.
Visitammo la cucina di Masen, lo chef siriano, quelle di Wandile Mabaso e David Higgs in Sudafrica e Noah capì come la carne veniva preparata in modi diversi nei vari Paesi del mondo. Anche il più noto chef indiano, Vicky Ratnani, mandò dei video a Noah per insegnargli a preparare il Kidichi. Lo chef Michele Massari, da New York, gli insegnò a cucinare il salmone in the sink. La chef stellata Michelin Dominique Crenn, da San Francisco, cucinò con Noah in diretta Instagram mostrando la preparazione di un piatto elaborato, il salmone con la crema di porri e la salsa béarnaise.
Una mattina presto andammo alla pescheria di Mohammed e Carlotta nel cuore di Bologna dove Noah ebbe l’opportunità di trascorrere una giornata al banco riconoscendo i vari tipi di pesce ed aiutando Mohammed a sfilettare i pesci scoprendo la loro anatomia.
La cucina divenne anche un modo per sviluppare il suo vocabolario ed andare oltre la sua timidezza. Questo è stato possibile anche grazie a chef come Luca Giovanni Pappalardo, della Trattoria Pane e Panelle di Bologna, che ha aperto più volte la cucina a Noah con lezioni monotematiche dedicate ai coltelli che lo affascinarono molto. Arrivato al compimento dei sei anni, Noah aveva sviluppato una serie di competenze divertendosi con me e con sua mamma, in cucina.
Imparò a scrivere in autonomia perché voleva preparare lui la lista della spesa per le ricette da inventare, io ero il suo assistente.
Sapeva usare i numeri, aveva imparato a rispettare i tempi della cucina, aveva capito che le sequenze in cucina sono importanti.
Imparò la geografia ma anche la storia attraverso storici che lo aiutarono a ricostruire le abitudini alimentari degli etruschi ed egizi.
Eravamo arrivati alla fine di un percorso, Noah iniziava la scuola elementare con un bagaglio educativo – costruito in cucina.